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La fine di un genocidio…o anche no – di Silvia Neposteri

La fine di un genocidio…o anche no

A 25 anni dal massacro tra Hutu e Tutsi, la strage è veramente finita?

 

C’è una cosa del genocidio rwandese che mi ha sempre affascinato. Si sa quand’è iniziato, ma di preciso non si sa quand’è finito.
Sui libri e sul network, si trova che è iniziato il 7 aprile 1994 e finito nel luglio dello stesso anno. Luglio. Luglio non è una data. Non è un momento preciso. Eppure, per un inferno come quello scatenatosi in Rwanda in quei mesi, verrebbe naturale, fisiologico, mettere una data di fine, come quando si trova il cattivo sui polizieschi e tutto finisce bene, ci tranquillizziamo che il male è finito, è stato estirpato.
Insomma, sappiamo quando è iniziata la prima guerra mondiale, l’unità d’Italia, quando Colombo ha scoperto l’America. 
E invece questo genocidio no, questa soddisfazione non ci viene data. E questo fa venire un sacco di domande. In che senso, il genocidio è finito “in quel mese”? Quindi si può dire che il genocidio sia veramente finito? Con quali criteri si valuta la fine di un genocidio? 
E cos’è davvero un genocidio? 
Proviamo a rispondere. Iniziamo col dare qualche coordinata di natura antropologica, storica, geografica e sociale per fare ordine e provare a comprendere, dal passato, un po’ più il nostro presente. Non possiamo ripercorrere tutta la storia dell’Africa in poche righe, ci basti sapere che il Rwanda è un piccolo stato di circa 28.000 chilometri quadrati nel cuore dell’Africa, nella fertile zona dei grandi Laghi. Molto piccolo, ma molto, molto importante. In una parola, strategico. Dal punto di vista etnico, a differenza di grandi stati come il vicino Uganda che vanta oltre 40 gruppi etnici e 30 lingue differenti, il Rwanda ospita tre gruppi distinti: Bahutu, Batutsi e Batwa. Tradizionalmente, agli Hutu era associata l’attività agricola e un’origine etnica bantu, ai Tutsi l’allevamento e un’origine nilotica (cioè del Nilo), mentre i Batwa erano una modesta minoranza di pigmei cacciatori-raccoglitori. 
 
In epoca precoloniale, tutte queste distinzioni, identitarie e socio-economiche, non erano ovviamente fissate e il tessuto sociale dei popoli occupanti l’attuale area del Rwanda era fluido, come, tra gli altri, l’antropologo E. Evans Pritchard cercava di farci cogliere nel XIX secolo descrivendo il sistema politico segmentario (vedi “I Nuer. Un’anarchia ordinata”, Franco Angeli 2015). Come spesso accade e come l’antropologia culturale ci aiuta a cogliere, quando si incontra qualcosa che non si conosce, questo spesso viene approcciato per similitudine o differenza, quindi associato a qualcosa di comprensibile al bagaglio culturale e conoscitivo di chi lo incontra e ha bisogno di comprenderlo e quindi viene semplicisticamente integrato, più che essere colto nella sua vera natura.  
Lo stesso vale per queste categorie e per la reazione che ebbero gli Europei di fronte a questa realtà. Durante la Conferenza di Berlino (1884-1885) – che aveva come oggetto, tra gli altri, la spartizione dell’Africa “a tavolino” -, le potenze europee riunite proclamarono il Rwanda parte dell’Impero coloniale tedesco, senza che nessun Europeo ne avesse ancora esplorato i territori. I principali interlocutori politici di un’Europa ancora largamente monarchica furono ciò che più assomigliava a un’élite: i Tutsi. Possessori di bestiame quindi più ricchi, nilotici, dunque più gentili e meno barbari persino anche nella fisionomia antropometrica. Dopo pochi anni, alla fine della prima guerra mondiale e in seguito alla sconfitta dell’Impero Tedesco, nella Conferenza di pace di Parigi (1919), il Rwanda fu riassegnato al Belgio sotto forma di mandato, e così rimase fino all’indipendenza (1959).
 
Nei decenni tra 1920-40, si inaspriva costantemente la discordia tra gli Hutu, maggioritari ma senza peso politico, e i Tutsi, minoritari ma privilegiati. Nel 1933, il Belgio introdusse le carte d’identità, che fissavano nero su bianco l’identità della persona specificano l’etnia Hutu, Tutsi o Batwa, rendendola statica, immutabile. Un’immutabilità che, nella logica africana, era qualcosa di completamente inedito e con un immenso potenziale distruttivo. Se prima tutto era fluido, la carta d’identità permetteva di individuare (e quindi eliminare) con semplicità i membri di un gruppo e dell’altro. Le discordie continuavano a inasprirsi, in particolare dopo l’indipendenza. 
Finisce la seconda guerra mondiale, l’Europa svolta verso la democrazia, il potere del popolo, dei molti. Questo passaggio doveva essere trasposto anche nelle colonie o ex colonie. 
E questo era un problema non indifferente in Stati come il Rwanda, dove era chiaro che la minoranza Tutsi non sarebbe stata sufficiente per garantire “la maggioranza”. 
La lotta tra Hutu e Tutsi prendeva la forma di un vero e proprio conflitto etnico, strumentalizzato in modo più o meno diretto dai giochi politici internazionali. 
 
Tra gli anni ’60 e ’70 si verificarono i primi massacri di Tutsi, fino all’apice, avvenuto nel genocidio del 1994: un milione di morti in 100 giorni, un quarto della popolazione sterminata tra aprile e luglio. Una guerra civile in cui erano i fratelli che denunciavano le sorelle, i figli che uccidevano i genitori, gli zii che scappavano dai nipoti che col machete li tagliavano a pezzi in chiesa, nello stadio o a lato della strada, in massa e uno per uno. 
Un tutti contro tutti all’impazzata, nella violenza più sanguinaria e brutale che il mondo non aveva mai nemmeno potuto immaginare.
Il 90% della popolazione vivente nel 1994 o è morta o ha ucciso o ha visto uccidere qualcuno. Il 90% della popolazione vivente nel 1994 ha perso almeno un familiare in questo massacro violentissimo, che mai né film, memoriali, libri o racconti potranno descrivere, perché l’inferno in terra è un’esperienza per cui non ci sono parole esaurienti. 
Stiamo parlando di 25 anni fa. Praticamente di ieri, quasi tutti quelli voi che leggete questo articolo eravate vivi, nel caldo di casa vostra, a vedere questa notizia che passava defilata al telegiornale della sera. Oggi, 25 anni dopo, ci troviamo con tutti i Rwandesi di età uguale o superiore ai 25 anni che hanno vissuto quest’esperienza o che l’hanno sentita raccontare dai genitori o dai nonni. 
La ferita lasciata da un evento del genere sembra incolmabile. Di fronte a questa immensità, dobbiamo per forza fermarci a riflettere.
Le persone hanno smesso di uccidersi, ma possiamo dire davvero che il genocidio sia finito? Cos’è stato davvero questo genocidio? E con quali criteri si valuta la fine di un genocidio? Qual è la vera radice del genocidio? Qual è la realtà in Rwanda oggi? Ma soprattutto, cos’è davvero il genocidio? Perché arriviamo a tanto? E genocidio è davvero soltanto uccidersi tra diverse etnie in modo brutale e violento o c’è sotto qualcos’altro? 
 
Quello che è successo in Rwanda è incredibile e quella terra grida sangue ancora oggi quando ci cammini sopra. Ma non possiamo profanare questa realtà semplicemente relegando al passato e alla memoria questo genocidio. Dobbiamo collegarlo al presente e i punti sono due. Primo punto. In molti articoli, il Rwanda viene descritto come una realtà di pace, positiva, “avanzata” in termini di infrastrutture e governo, secondo fattori considerati rilevanti dall’Occidente. Più strade, più case, più fogne. Ma questo è davvero un buon governo?
In quel generico “luglio 1994”, credo sia opportuno dire che il genocidio non è finito, bensì è stato “sistemato”. Qualcuno ha ucciso più di qualcun altro, i Tutsi hanno avuto la loro magra rivincita e Paul Kagame è pacificamente al governo da 25 anni e da 19 Presidente con generale approvazione della politica e di una buona fetta della stampa internazionale.
Eppure, a febbraio di quest’anno, sono stati chiusi e militarizzati i confini con l’Uganda. 
A maggio, sono apparsi articoli in cui la stampa vocifera su tensioni per cui il Rwanda potrebbe, a ragion veduta o meno, temere il brulicare di ribelli in agguato ovunque, ma senza poter fornire prove concrete. Tutto sembra nebuloso, proprio come ad aprile del 1994, in cui nessuno ci aveva capito molto, ma ci si era ritrovati a scannarsi da un giorno all’altro. 
I ribelli potrebbero essere in Uganda, Burundi, Congo, persino tra le file degli stessi Rwandesi, nel caso dovessero avere tempo di cospirare nei momenti liberi, in cui non sono obbligati a partecipare a tutti gli eventi governativi proposti (o imposti?) alla popolazione, incluso l’umuganda, il giorno mensile di “lavori socialmente utili per la comunità”, meglio conosciuto come moderna evoluzione della corvée, e che potrebbero ricordare, provocatoriamente, una specie di lavori forzati per il bene dello Stato. 
Il nemico brulica, si sposta, complotta. Il nemico sarà sempre in agguato, se, prima che fuori, non lo risolvi dentro. E qui arriviamo al punto 2. Il punto non sono Hutu, Tutsi, democrazie o dittature, perché ognuno di noi, oggi, vive un genocidio. Il genocidio della propria persona.
 
Genocidio è tutte le volte che non percepiamo, rispettiamo e viviamo tutta la meraviglia del valore della persona, della nostra persona e di tutte le altre. Genocidio è tutte le volte che il clan, l’economia, la società, le tradizioni, le religioni, la democrazia, la dittatura o qualunque struttura di matrice “umana” si mette tra la persona e la sua natura sacra di creatura portatrice di Vita.
Ognuno ha la sua forma di genocidio. 
Milioni di lavoratori depressi, senza speranza, incastrati in un lavoro che non rispetta la vita e che mette al centro il profitto, il guadagno, i soldi. Centinaia e centinaia di ragazzi oppressi da uno studio che qualifica quello che valgono in base ai risultati, a quello che vuoi fare.
Milioni di famiglie che finiscono, tradimenti, doppie vite, schizofrenie che non portano a sane e vere relazioni di coppia e con i figli.
Repressione, rabbia e rancore che inaspriscono lo Spirito fino ad arrivare al corpo, fino a diventare tumori, malattie, disagio di cui non si capisce nemmeno più la radice.
 
Delegare il genocidio a quei 100 giorni rwandesi e pure a quel milione di morti, sarebbe davvero profanarli. Perché per onorarli davvero, non possiamo soltanto dispiacerci per loro e ricordarli, come se fosse qualcosa che ci riguarda solo fino a un certo punto. 
Ci riguarda eccome. Siamo tutti collegati, la vita è affare di tutti, ogni volta che non viene rispettata e siamo chiamati a essere vere persone, veri padri e madri, veri lavoratori creativi e in servizio alla vita più che al profitto o al nostro unico benessere, veri “missionari d’amore” che è rispetto e scambio di rispetto in noi, con i vicini e con chi è lontano. Solo così possiamo onorare il genocidio del Rwanda e non ripeterlo ogni giorno nel nostro piccolo, per non ritrovarci, senza sapere perché e quasi senza vederlo, a ucciderci gli uni gli altri, tra genitori, figli, parenti, vicini, conoscenti, vicini e lontani, perché non cogliamo la meraviglia che siamo e che ogni persona è.
è necessario darsi una mano per la vita e per non ripetere questo scempio.
 
 
“Il genocidio dentro”
 
Non capirai mai. Tu, Europeo. Nato 2, 3, forse 4 generazioni dopo la seconda guerra mondiale. però puoi amarti e amare. ecco come
 
Non capirai mai il genocidio rwandese. 1994. Aprile-Luglio. 3 mesi. Un milione di morti su una popolazione di 6 milioni. Entri in un Memoriale. Leggi le spiegazioni degli storici. Ascolti le testimonianze dei sopravvissuti. Guardi le fotografie dei cadaveri. O le foto ricordo. Di quando erano vivi. Di come chi li ricorda vuole ricordarli. Vedi i vestiti, le ossa e i teschi di chi era vivo. Di chi è stato stuprato, bruciato, ucciso a colpi di pistola, machete, martello o qualunque cosa, tagliato in due o più pezzi per vedere se usciva sangue o latte, perché qualcuno diceva che i Batutsi avevano il latte al posto del sangue. Di chi è morto e che potevi essere tu. Mica l’hai scelto. No dico, mica l’hai scelto di nascere nel 1986. In Europa. A Gallarate. Senza guerra. Senza genocidio. Non l’hai scelto tu. È un dono. 
 
Tu non hai visto. Non hai mai visto. Non hai mai visto nulla. Non hai visto tuo padre uccidere tua madre. Non hai visto morire tutta la tua famiglia, tranne te, che, alla fine, chissà perché non sei morto pure tu. Non hai visto tuo fratello denunciare tuo padre. Non hai visto 250.000 persone chiuse in uno stadio e sterminate. Non hai visto montagne di cadaveri e mesi di fetore di morte che ti entra dentro fino a distruggere il pezzo di anima che ti era rimasta. Non hai visto bambini accoltellati nell’utero perché figli della parte sbagliata. Non hai visto bambini attaccati al seno della madre morta. Tu non l’hai vissuto. Il 90% delle persone vive del 1994 tra uomini, donne e bambini, ha visto montagne di cadaveri e fiumi di sangue. Il 90%. L’uomo senza Dio porta l’inferno sulla terra. Questo è stato il genocidio rwandese. L’inferno. Il frutto di mille posizioni non prese. Da tutti. Dai Rwandesi che hanno accettato la colonizzazione. Dalle Nazioni Unite che sono rimaste inermi. Da tutti coloro che hanno abbassato gli occhi di fronte al passaggio di armi e armi e armi e armi in un Paese così piccolo, chissà perché, no, non lo voglio sapere, sta bene così. Da tutti quelli che non ne so niente e va bene così. Tutti, tutti ci siamo dentro. Il genocidio sei tu che rinunci, ti adatti, tutto va bene basta che sto bene io. Non ti accorgi e domani scorrono fiumi di sangue. È così l’inferno. Mica ti avvisa in anticipo così non ci vai. Il diavolo sarà tutto, ma non scemo. Scemo proprio no. 
 
Di fronte a queste centinaia di migliaia di morti, li ho guardati tutti. Ho guardato i loro teschi, vestiti, rosari, medagliette della Madonna, pettinini, scarpette da bimba spaiate. Quella scarpetta spaiata, elegante, comprata dalla mamma o dal papà per un giorno di festa, ecco, quella scarpetta che proprio non si aspettava di essere persa per strada, non me la levo dalla testa. Chissà dov’è finita l’altra. Tutto sarebbe stato pronto per essere usato come in ogni giorno e invece no. Tutto si è fermato. Tutto è stato preso. Dalle urla. Dalla furia. Dall’uomo senza Dio. Dalla morte. E poi, dal silenzio. Ogni volta che non prendiamo posizione per la vita, facciamo una nuova vittima del Genocidio di anime che tocca tutto il mondo di oggi. Muoiono la nostra anima, il nostro carattere, le nostre energie personali, la nostra natura più profonda di essere cocreatori e corredentori in Cristo per vedere e risolvere gli inganni dentro e fuori di noi. Noi. Noi. Oggi rancorosi, liquefatti, incattiviti. Senza Dio, senza noi stessi, senza anima. Senza amore, senza gioia, senza povertà, senza carità. Guardavo le foto dei bimbi uccisi perché erano Tutsi o Hutu e pensavo alle foto dei bambini che ho nelle mie missioni e che ancora non vengono salvati dall’amore e dalle vere relazioni. Guardavo le foto di questi bambini e prego. Per loro. Ma soprattutto per noi. Che con tutta questa esperienza di che cosa siamo se siamo senza Dio, la responsabilità è veramente ma veramente grande. Abbiamo visto dove possiamo arrivare se continuiamo a non prendere posizione per la vita nostra e altrui. 
E non possiamo ripetere. Ma come non ripetere se non vediamo la vera radice del nostro male? Come risolvere se, nel migliore dei casi, vediamo, ne parliamo, magari ci commuoviamo, ma non possiamo, sappiamo, riusciamo a trovare il modo giusto, vero, profondo e completo per impegnarci a costruire, personalmente e comunitariamente, qualcosa di nuovo? Non fuori. Fuori, dopo. Fuori ci arriviamo solo se partiamo dal posto più lontano da noi. Noi stessi. 
E tutto quello che, di noi, non vogliamo vedere. Solo vedendo quello che non vogliamo vedere dentro di noi, potremo iniziare a essere liberi da ciò che veramente ci impedisce di amare, risolvere, partecipare alla vita. La radice di ogni vero genocidio di anime e, poi, di persone. Non è un optional o un compito di pochi che “che forti”, “grazie per quello che fai”, etc. Bisogna impegnarsi molto per vedere i subdoli inganni inconsci e superarli con la Luce sul nostro inconscio, la Fede certa in Cristo risorto e nella Carità di vivere senza giudizio. È un dovere di ognuno. Di ognuno. 
 
Se siamo veramente esseri umani. Non aspettiamo che sia troppo tardi. Non aspettiamo che il genocidio esploda in noi e fuori di noi. Questa cultura, la cultura di Italia Solidale, sta già aiutando milioni di persone nel mondo a uscire da questo genocidio. 
I libri di Padre Angelo Benolli, le comunità solidali, le relazioni mondiali di amore per la vita a partire dai bambini sono la possibilità concreta di vedere, riparare e costruire una vita che sia secondo Dio, secondo la vita e non secondo la violenza dell’inferno, secondo la morte. “Chi salva una vita, salva il mondo” recita il Talmud. Ama una vita, salva un bambino, riscatta nell’amore tutta questa violenza. Partecipa a questa grande missione! La missione inizia dal bisogno personale di ognuno di entrare a fondo negli inganni della propria vita che fanno questo genocidio silenzioso di isolamento e inerzia e arriva al mondo attraverso la carità per i bambini sofferenti, perché solo l’Amore risolve la moltitudine dei mali. Diamoci una mano oggi! Salvate questi bambini e risorgiamo insieme nelle vere relazioni! 
 
Silvia Neposteri  

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